Il termine “Capitolare“ deriva dal latino “capitulare“, composto da “caput” (testa) e “tollere“ (nell’accezione di “sollevare”), dunque per traslato: “sollevare la testa in segno di sconfitta“. Un vocabolo del gergo militaresco, da riferire al nemico vinto in battaglia ma la cui storia s’intreccia con quella di perenne mutamento della lingua nei secoli. Il termine giunge, nel latino tardomedioevale, a indicare il complesso di leggi che i sovrani Longobardi erano soliti promulgare per regolare vari aspetti della vita pubblica: dall’istruzione alla proprietà, dai compiti del clero all’agricoltura. E proprio in agricoltura lo ritroviamo, come per una bizzarra “eterogenesi dei fini“, a sancire l’inizio della storia del vino in Toscana. E proprio questa è la storia che ti racconto oggi…
“Dalla fine all’inizio” insomma, secondo quella concezione circolare della storia per la quale ogni fine sancisce sempre un nuovo inizio.
I “Vini con predicato” toscani
Dal “capitolare” latino che significava ‘sollevare la testa in segno di sconfitta‘ fino al Capitolare del vino, che segna l’inizio della legislazione vitivinicola
Era per mettere fine al caos generato dall’assenza di una legislazione organica che i sovrani Longobardi impiegarono per la prima volta questo termine, con riferimento alla regolamentazione. La stessa motivazione che nel secolo scorso spinse i viticoltori a riunirsi per stabilire regole semplici e chiare circa uvaggi e metodi di lavorazione dei loro vini. Vini la cui qualità fosse, a partire da allora, codificata dal rispetto di uno stretto disciplinare di produzione. I produttori decisero di chiamare i prodotti che rispettavano queste regole “Vini con Predicato“, termine che dopo pochissimo tempo fu sostituito con “Capitolare“, in omaggio alla tradizione giuridica italica.
I 4 Capitolari toscani, antesignani dei disciplinari
I primi capitolari furono 4: due per definire le regole di vinificazione delle uve bianche e due per le uve nere
In quell’occasione furono definite 4 categorie di vini: due riguardanti i vini bianchi, due per i vini rossi. Il primo, il “Capitolare di Biturica” – il cui nome deriva dal termine latino con cui era nota la varietà di uva Cabernet Sauvignon – era prodotto con uve Sangiovese e Cabernet Sauvignon nella proporzione minima del 30% per ciascun tipo di uva.
Il “Capitolare del Cordisco” – il cui nome deriva invece dal termine con cui era nota nel Medioevo l’uva di tipo Sangiovese – doveva essere prodotto con una percentuale minima del 90% dell’omonima uva e con un massimo del 10% di altre uve a bacca rossa.
Il “Capitolare del Muschio” destinato ai vini bianchi, doveva invece essere prodotto con uve Chardonnay e/o Pinot Bianco e con l’eventuale aggiunta di Riesling Renano, Riesling Italico, Pinot Grigio oppure Müller Thurgau nella percentuale massima del 20%.
L’ultimo, il “Capitolare del Selvante“, sempre per vini bianchi, doveva contenere uve provenienti dal vitigno Sauvignon Blanc ed eventualmente le stesse uve e le percentuali previste per il già citato “Capitolare del Muschio”.
Ma i viticoltori toscani non si fermarono qui: essi stabilirono un affinamento minimo di 12 mesi per i vini bianchi e di 18 per quelli rossi e sancirono in aggiunta che venisse riportato nell’etichetta della bottiglia il nome del vigneto (definito “Cru“) da cui provenivano le uve. Una dizione che è rimasta ancora oggi nelle etichette di molti grandi vini toscani, forse proprio in omaggio a quei tempi, quando un manipolo di lungimiranti pionieri gettò per la prima volta le basi di quella che sarebbe divenuta una cospicua parte di futuro e di fortuna per la Toscana.
E così ebbe inizio la storia dei moderni disciplinari di produzione, che ti racconto nell’articolo che trovi qui sotto: