Lo avrai sicuramente assaggiato accompagnato dai tradizionali Cantucci
Il Vinsanto, quel delizioso vino liquoroso da fine pasto della tradizione toscana aromatico e un po’ dolce che nel finale rivela un retrogusto secco e leggermente sapido che lo rende un perfetto equilibrio tra profumo e piacere. Ogni pranzo della domenica nelle famiglie delle campagne toscane non è tale senza che venga aperta una bottiglia di vinsanto vecchia di almeno 8 anni. Se lo hai gustato , probabilmente servito assieme ai cantucci, i deliziosi biscotti secchi ripieni di mandorle della tradizione toscana, anche tu ti sarai forse chiesto: “Ma come si fa il Vinsanto toscano?”.
Me lo sono chiesto anch’io ma visto che la tradizione non è solo una e che ogni famiglia ed ogni paesino ha la sua “ricetta”, ti assicuro che la risposta non è così ovvia.
Le dibattute origini del nome del Vinsanto
Il nome risale ad una epidemia di peste oppure all’appellativo datogli da Bessarione? Tutt’ora è un mistero!
Pensa che le incertezze iniziano già dal nome. Sicuramente il Vinsanto ha origini che si perdono negli albori del Cristianesimo, quando per il suo sapore particolarmente “gentile” fu individuato come vino più indicato per la celebrazione della Messa. Però riguardo al nome ci sono almeno due versioni, che in parte riflettono anche le tradizionali ostilità Siena/Firenze e che tutt’ora è un mistero decifrare: l’una risale al 1348 quando, scoppiata una epidemia di peste nella provincia di Siena, si iniziò a somministrarlo ai malati ritenendolo benefico al pari di una medicina. Sembra che i malati vicini alla morte, provando un immediato sollievo nel berlo, ad ogni sorsata esclamassero: “Questo vino è santo!”.
L’altra versione ci giunge da Firenze: durante i lavori del Concilio, sembra che Bessarione, vescovo di Nicea, intento a bere un sorso di Vinsanto, abbia proclamato a gran voce “questo è un vino di Xantos!“. Sempre che la vicenda sia vera, si puòipotizzare che si riferisse al paragone con un noto vino passito greco prodotto nell’isola di Santorini, molto simile al Vinsanto nel gusto. Una variante della stessa storia riferisce che egli abbia usato la parola greca “xanthos” (in greco ξάνθος), che significa “giallo”: forse si riferiva al particolare colore del vino. Beh insomma… qualunque sia la stata la sua origine, il nome e la bontà di questo nettare si sono conservate fino ai giorni nostri!
Come si produce il Vinsanto toscano
Secondo la tradizione per produrre il Vinsanto si dovevano selezionare, in occasione di ogni vendemmia, i migliori grappoli di uva di tipo Trebbiano o Malvasia (uve “a bacca bianca” poichè qualora si impieghino Sangiovese o Canaiolo, in luogo del termine “Vinsanto”, si suole parlare di “Occhio di Pernice”). I grappoli migliori – in particolare quelli più radi di acini al fine di essere meglio appassiti dal transito d’aria – dovevano quindi essere appassiti in appositi locali detti “appassitoi”, su stuoie di canniccio oppure appesi al soffitto finché – in via del tutto naturale, dopo circa 3 mesi – gli acini si fossero completamente disidratati, così da rendere lo zucchero contenuto nell’uva un vero e proprio concentrato.
I nostri nonni toscani erano soliti preferire i grappoli di Malvasia perchè meglio predisposti a questo appassimento e lo protraevano fino alla fine di dicembre mentre oggi questa operazione può arrivare fino al 31 marzo di ogni anno, in base al disciplinare di produzione che ne fissa regole stringenti.
Era necessario selezionare i migliori grappoli di Trebbiano o Malvasia, appassirli, pigiarli e trasferire il mosto in caratelli sigillati con la ceralacca
Una volta concluso l’appassimento i grappoli venivano pigiati ed il mosto che si ricavava veniva trasferito in piccole botti in legno di rovere o castagno della capacità massima di 50 litri, dette “caratelli“, che oggi possono contenere fino a 200 litri. La particolarità stava nel fatto che queste piccole botti non venivano lavate tra un anno ed il successivo. Restava al loro interno una certa parte di vinsanto fermentato in precedenza ed era un vero e proprio delitto filtrarlo perchè era proprio questo il vero responsabile del gusto di questo liquore, che per questo veniva chiamato “madre“.
Cos’è la “madre” del Vinsanto?
La madre è un composto melmoso, formato da microrganismi che si sviluppano naturalmente durante la fermentazione e che si alimentano e riproducono all’interno della stessa fanghiglia grazie all’ambiente favorevole creato da ogni nuova mandata annuale di mosto. Insomma un composto a tutti gli effetti “vivente” ed essenziale per il Vinsanto, nella misura in cui è proprio questa melma che gli conferisce il gusto ed il bouquet di aromi tutto particolare che rende ogni Vinsanto unico al mondo!
I caratelli non venivano lavati tra un anno e l’altro perchè sul fondo si formava la “madre”
Caratelli e ceralacca
Come potrai immaginare questo processo necessitava di tempo e condizioni ambientali ottimali. Proprio per questo motivo i nostri nonni erano soliti sigillare ogni caratello in maniera ermetica, attraverso la ceralacca, poi riporlo in appositi locali. Il mosto non poteva assolutamente riempire fino all’orlo la botticella, altrimenti nel fermentare il contenitore sarebbe esploso, inoltre doveva subire frequenti arresti durante la fermentazione, allo scopo di favorire la riproduzione dei microrganismi. Questo effetto veniva ottenuto collocando i caratelli in un ambiente sottoposto a forti sbalzi termici – le cosiddette “vinsantaie” – in genere costruite sotto ai tetti, nei solai oppure in luoghi fortemente umidi della colonica.
Le difficoltà non cessavano qui perché per produrre un quantitativo sufficiente di Vinsanto erano necessarie grandi quantità di grappoli. Ti basti pensare che con un quintale di uva fresca non si producono più di 30/40 litri di di Vinsanto!
Forse che questo certo carattere di “santità” fosse dovuto anche alla eccezionalità del prodotto?