Limitata da rilievi ad Est e a Ovest, la Val di Chiana è una valle pianeggiante interrotta da qualche dolce collina, che si snoda per un centinaio di chilometri dalla periferia aretina fino al lago di Chiusi, attraversando due province (Siena ed Arezzo) e lambendo tre regioni, Umbria, Lazio e Toscana. Attraversando in auto o in bici queste contrade sembra impossibile che un tempo al posto dei campi di girasoli e delle terre fertili ci fosse una palude malarica e incoltivabile. Fino al metà del secolo scorso questa era una terra nota per la sua frutta succosa, per il suo tabacco di pregiata fattura, il suo grano e i suoi maggesi, dove s’allevava la razza di carne più rinomata del centro Italia, la Chianina.
Tuttavia sin dalle sue lontane origini geologiche la valle è stata attraversata dalle acque di numerosi torrenti, provenienti tanto dall’aretino quanto dal senese. Corsi d’acqua come l’Esse, la Foenna, il Vingone piuttosto che il Salarco, il Salcheto e molti altri ne hanno determinato un costante impaludamento fino alla soluzione definitiva ad opera di un folto parterre di ingegneri e tecnici arruolati sotto le insegne del Granducato.
Una valle fertile per Etruschi e Romani
Probabilmente furono gli Etruschi i primi a immaginare un intervento di bonifica della Val di Chiana, gli stessi identificati come autori dell’inversione del corso dell’Arno. Quel fiume che “torce il muso ad Arezzo” come disse Dante. I Romani ricevettero in dote pertanto una valle fertile e coltivabile, che contribuirono a migliorare facendo erigere sul fiume Clanis dighe e pescaie con l’intento di sfruttare i corsi d’acqua per la pesca e la navigazione. Ma già allora si manifestarono i primi problemi: si temeva, nelle città di Florentia e Roma, che una inversione del corso dei canali potesse nuocere ai fiumi più grandi – Arno e Tevere – dove le acque del Clanis andavano a confluire, determinando perpetue inondazioni cittadine. Sarà questa una preoccupazione comune anche nei secoli successivi, quando le soluzioni più avanzate (forse anche risolutorie), verranno a più riprese scartate. Per questo motivo, esauritasi la civiltà romana, la valle tornò ad impaludarsi, divenendo putrida e malsana.
Leonardo da Vinci sembra trovare una soluzione
Fu quel personaggio particolarissimo di nome Cesare Borgia, passato alla storia con un lungo elenco di epiteti malvagi a preoccuparsi per primo della situazione idraulica dell’intera Toscana. Egli scelse il genio del suo tempo, Leonardo da Vinci, che nel 1502 iniziò a studiare una soluzione assai avanzata per il suo tempo, pietra miliare nello sviluppo della successiva tecnica idraulica.
L’idea di Leonardo per la Val di Chiana era semplice: valutando il livello delle acque del Lago Trasimeno e quello della vallata paludosa egli ipotizzò la possibilità di costruire un canale completamente navigabile che non solo collegasse le acque dell’Arno al Lago per poter ridurre la portata degli impaludamenti ma che proseguisse poi da Arezzo in direzione di Pisa. La Val di Chiana avrebbe funzionato da bacino di compenso per ridurre il dislivello tra il lago e la valle, allo stesso tempo sarebbe servita a mantenere costante il livello delle acque dell’Arno. Fu proprio qui che l’avveniristica idea di Leonardo si scontrò però con i pisani, preoccupati di subire inondazioni.
L’impaludamento era determinato in sostanza dall’orizzontalità del territorio: in una superficie piatta l’acqua si spande e ciascun canale che venga costruito non ha la forza di un torrente in pendenza per poter permettere lo scolo. Se a questo aggiungiamo poi le discussioni tra Stati e Signorie che si contendevano il territorio, vediamo bene che nessuno era pronto ad assumersi il rischio di una deviazione dei corsi d’acqua o l’onerosità di importanti opere di bonifica.
I Medici ed il Canale Maestro della Chiana
L’intera zona per la quale sembravano esistere solo soluzioni temporanee, finita ai Medici con la definitiva sconfitta di Siena nel 1554, rappresentò per molto tempo una ferita aperta nel cuore della Toscana. Inutilizzabile dal punto di vista del pieno impiego agricolo, soggetta a costanti febbri malariche, preda di banditi e per gran parte dell’anno inagibile per i collegamenti, la Val di Chiana abbisognava di un intervento radicale. I Medici cominciarono ad occuparsi della bonifica con Cosimo il Grande, commissionando anzitutto all’ingegner Ricasoli il rifacimento delle carte geografiche. Le nuove carte mostravano una situazione drammatica: da Pieve al Toppo (Arezzo) fino a Chiusi (Siena) si estendevano quasi 11.000 ettari di territori completamente paludosi e improduttivi. Si cominciò così a scavare un nuovo Canale Maestro che permettesse l’arretramento della palude. La vera e propria bonifica tuttavia prese avvio soltanto successivamente, col convogliamento dei principali torrenti nel nuovo Canale e la costruzione delle prime grandi fattorie e vie di comunicazione.
Nel corso di quasi due secoli i lavori proseguirono lentamente, a tratti osteggiati ambo dallo Stato pontificio e dal Granducato Mediceo, sempre preoccupati che la palude arrivasse a lambire territori più prossimi ai loro diretti domini. Solo con l’estinzione della dinastia medicea e il passaggio della Toscana ai Lorena si sarebbe approntata una soluzione organica e definitiva, capace di generare profitti e ricchezza per la Toscana tutta.
Pietro Leopoldo: leggi eque e case salubri per i contadini
Fu Pietro Leopoldo, giunto in Toscana nel 1765, appena ventenne e ignaro anche della lingua ad avviare la più coerente e razionale opera di bonifica integrale che la Toscana abbia mai conosciuto. Egli si trovò davanti una situazione che il suo predecessore Francesco Stefano aveva soltanto iniziato timidamente a sanare: mentre il clero, la Corona e l’ordine dei Cavalieri di S. Stefano godevano di assoluta esenzione fiscale, leggi annonarie obsolete proibivano il libero commercio dei grani per i contadini che si trovavano a soffrire costantemente la fame. La proprietà fondiaria era invece preda del fenomeno della manomorta, che non consentiva la possibilità di alienare i beni alla morte del feudatario, superabile soltanto attraverso il pagamento di cospicue tasse. Tutto questo per il liberismo illuminato di Pietro Leopoldo era inaccettabile.
L’opera di questo Granduca che fu sempre guardato un po’ con sospetto, iniziò pertanto da una totale riforma legislativa. Egli si batté per abolire i privilegi e mettere la scienza e la tecnica al servizio di un’idea di paesaggio che fosse anzitutto funzionale. Di lui le cronache ricordano un personaggio attento alle spese, sobrio fino al punto di rigettare progetti troppo dispendiosi ed inutilmente autocelebrativi. Non pago di dedicarsi esclusivamente alla bonifica Pietro Leopoldo avviò anche un dibattito, in seno all’Accademia fiorentina dei Georgofili sulle soluzioni abitative ed architettoniche più funzionali per i contadini delle zone bonificate. Voleva che questi vivessero in case ampie, arieggiate, dotate di tutti gli annessi funzionali alla vita di campagna e non in spazi piccoli, malsani ed angusti. Da questa sua volontà sono pervenute le “leopoldine” odierne: grandi fattorie dotate di aia, stalle e spazi abitativi, progettate per una vita scandita dai ritmi agricoli ma anche per non far ammalare i propri abitanti, di cui qui vi raccontiamo le soluzioni architettoniche e le illuminate idee alla base. Ancora oggi le case coloniche volute da pietro Leopoldo per la popolazione della Val di Chiana restano a perenne testimonianza di un nuovo rapporto tra il lavoro agricolo e le esigenze umane.
La bonifica sancisce un nuovo ordine sociale
Fu all’aretino Vittorio Fossombroni ed all’ingegnere gesuita Leonardo Ximenes che venne affidato il progetto di bonifica rispettivamente della Valdichiana e delle Maremme. Mentre il Fossombroni ideò il meccanismo della “bonifica per colmata” che consisteva nella sedimentazione dei detriti portati dalle acque per colmare le aree acquitrinose mentre queste venivano confluite in canali artificiali, lo Ximenes partì dalla convinzione che la “guerra delle acque” non dovesse essere combattuta prosciugando bensì assicurando il ricambio e l’opportuno convoglio delle acque in un sistema di canali che diventassero idrovie o riserve di pesca nonché fondamentali sistemi di termoregolamentazione climatica.
L’idea che Pietro Leopoldo aveva in mente non era solamente ascrivibile ad una gestione più oculata delle spese granducali, come qualche storico ha liquidato. Costruendo o migliorando strade, fabbricando ponti e dogane si voleva incrementare il commercio ma anche operare un controllo più capillare e sistematico del territorio. Alienando beni ed ordinando la costruzione di case per i contadini dietro concessione di sgravi fiscali si voleva instaurare un nuovo rapporto tra città e campagna dove la seconda non sarebbe più stata sfruttata dalla prima ma vista quale risorsa e perno dello sviluppo.
In breve: Pietro Leopoldo ambiva a fondare un nuovo ordine sociale, non più all’insegna dello sfruttamento della plebe da parte di signori ed ecclesiastici ma della collaborazione tra ceti e del rispetto delle funzioni di ciascuno. É per questo motivo che ci azzardiamo ad ipotizzare che forse, in un periodo di decadimento della vecchia nobiltà, non erano completamente alieni a questo Granduca i concetti di allargamento della rappresentanza politica e di autonomia amministrativa locale. Difatti se da un lato furono avviati gli interventi di bonifica, dall’altro furono disposti specifici provvedimenti atti a liberare i contadini dalla servile dipendenza colonica ed a migliorarne le condizioni di vita e di salute, attraverso il rifecimento delle loro case secondo modelli improntati a quella “architettura di servizio” che improntò tutta la politica edile dell’epoca leopoldina.
Il lavori edili coinvolgono i paesi
Purtroppo i lavori in Val di Chiana durarono a lungo. Solo nel 1786, in occasione di una ulteriore visita, il Granduca si potè dire soddisfatto dei miglioramenti. Anche grazie agli interventi abitativi le malattie si erano drasticamente ridotte. Mentre proseguivano i lavori di regimazione delle acque – che sarebbero stati completati soltanto con il successore Leopoldo II, detto “Canapone” – furono avviati nuovi lavori edili. Attendendosi un progressivo aumento della popolazione rurale, i maggiori centri abitati videro il sorgere di nuovi ospedali, cimiteri, scuole pubbliche gratuite per ragazze e ragazzi, orfanotrofi e chiese parrocchiali. A Montepulciano la Fortezza veniva restituita alla comunità mentre Chianciano vedeva nascere nuove porte di accesso alla città vecchia. Dappertutto si provvedeva a risanare strade e sistemi fognari, a pavimentare e costruire ponti. Tutto in una logica di progressivo decentramento, segno e simbolo del nuovo volto che Pietro Leopoldo volle dare alla Toscana.
Ferdinando III torna a privilegiare le città
Se Pietro Leopoldo non riuscì mai a levarsi di dosso quello sguardo un po’ torvo e scettico che gli riservarono i Toscani di ogni ceto, assai diverso da lui fu il successore Ferdinando III, costretto dai tempi a dover affrontare una lunga sequenza di rivolte e sommosse sulla spinta delle idee progressiste provenienti dalla Francia. Forse in questa chiave va letta l’attenzione che dedicò ad alcune città toscane, che cercò di favorire in ogni modo potenziandone l’industria ed i commerci. Un caso su tutti la città di Arezzo che, per ingraziarsi il fenomeno popolare del “Viva Maria“, fu posta al centro di un nuovo sistema di vie di media e grande comunicazione miranti ad aumentarne il benessere ed a creare nuove occasioni di lavoro per tutti i disoccupati vittime delle carestie del 1815-16. Così mentre l’aretino Fossombroni veniva nominato primo ministro, ecco che venivano inaugurate la strada per Siena da Monte San Savino, quella per il Casentino, quella per Ancona da Borgo San Sepolcro e quella che collegava Arezzo a Chiusi. Si stava forse invertendo il rapporto privilegiato campagna-città immaginato da Pietro Leopoldo e perseguito attraverso l’edificazione di un modello virtuoso di sviluppo rurale a scapito di interventi urbani giudicati inutilmente dispendiosi? Forse si se consideriamo che i nuclei urbani maggiori furono oggetto di costante attenzione da parte di Ferdinando III, Granduca più attento al decoro e al “bello” di quanto il suo predecessore.
Il testamento dei Lorena: una Toscana moderna
La Toscana delle città, sotto Ferdinando III cominciò così a sperimentare, dopo la sobria eleganza e la pienezza volumetrica dell’età leopoldina, nuovi linguaggi architettonici. Messi da parte gli interventi più urgenti ed accantonate le opere idrauliche, fu tutto un fiorire di facciate, pronai, atri, torri, scaloni, edicole e architetture da giardino. Mentre andava formandosi un nuovo ceto imprenditoriale borghese capace di dare nuovo respiro all’economia, nasceva anche l’industria estrattiva toscana, che Ferdinando III si sentì subito di sostenere, vedendo in essa il futuro. Ci volle però l’ultimo Granduca, Leopoldo II affinché ci si rendesse conto che “miniere dovevano correre con l’agricoltura“, al punto che il definitivo risanamento della Maremma e della Val di Chiana divennero per l’ultimo Granduca lorenese una “idea fissa del giorno e della notte“.
Convinto che “ogni suolo più fertile di Toscana ed ogni miglior speranza di commercio stava intorno ai centri di Pisa, Arezzo e Grosseto“, ridiede avvio alla bonifica integrale ed avviò un programma di apertura di nuove strade interne che collegassero a questi i centri minori del territorio. Fu questo il periodo in cui le zone paludose conobbero la definitiva soluzione ad un problema che si era trascinato per secoli. Quasi alle soglie dell’Unità d’Italia la Toscana venne così ad assumere il volto che in qualche località rurale ancora porta. Ultimo merito dell’ultimo Lorena fu quello di consegnare al nascente Regno un territorio agricolo produttivo, avanzato nei commerci e ben collegato da vie di comunicazione e da un efficiente e capillare sistema ferroviario.
Tutto il resto è storia.
BIBLIOGRAFIA:
Per realizzare questo articolo abbiamo attinto al bellissimo volume “La Toscana dei Lorena. Politica del territorio e architettura”, di Carlo Cresti, Ed. Banca Toscana, 1987.