“I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar.
Mi riconobbero, e— Ben torni omai —
Bisbigliaron vèr’me co’l capo chino —
Perché non scendi ? Perché non ristai ?
Fresca è la sera e a te noto il cammino. […]”

Un colpo di genio ebbe il Carducci nel dedicare alcuni tra i suoi versi più famosi ai cipressi di Bolgheri, quasi anticipando quella che sarebbe diventata l’immagine più simbolica della Toscana nel mondo. Simbolici ma anche emblematici, chi meglio dei cipressi sa incarnare quell’idea di autorevole e semplice bellezza propria della campagna toscana, piuttosto che la verticalità e la geometria degli spazi urbani costellati di torri e campanili? Dritti come fusi puntati verso il cielo, forse proprio per questo motivo furono scelti sin dall’antichità come simbolo di sacralità, di vita e di morte. Austeri ed eleganti, con una certa aura di saggezza forse a causa della loro incredibile longevità, i cipressi accompagnano da secoli la vita delle colline toscane.

I cipressi nella cultura etrusca

Il cipresso nella storia delle civiltà ha sempre assunto significati emblematici: Confucio lo diceva simbolo d’immortalità mentre Origene gli riconosceva un’aura di quasi-santità. Il cipresso giunse però in Italia molti secoli prima della diffusione della religione cristiana, importato dalla Persia. Magro, sottile, verticale e d’un colore tendente al nero, presso gli Etruschi incarnava il passaggio tra la vita e la morte. E leggenda vuole che in segno di lutto tagliassero la cima di un cipresso ogni volta in cui veniva a mancare un capofamiglia. Probabilmente da qui ha origine l’usanza di piantarli vicino alle antiche necropoli, oggi vicino ai cimiteri.

Strada bianca per raggiungere una antica grancia nei dintorni di Asciano
Strada bianca per raggiungere una antica grancia nei dintorni di Asciano – ItalyzeMe CC BY-NC-ND 2.0

I cipressi tra l’aldilà e la medicina

Venerati sin dall’antichità, i cipressi erano, per Etruschi e Romani, un simbolo di passaggio tra la vita e la morte

Anche i Romani venerarono i cipressi, in continuità con la cultura ellenica ed etrusca. E continuarono a piantarli in territorio toscano riconoscendo ad essi, secondo una antica usanza, doti medicamentose sia per riguardo ai frutti che al fogliame ed alla corteccia. Ippocrate, mitico fondatore della medicina, cita le gemme di cipresso come di potenti vasocostrittori. Fu anche a causa di questo dato che il cipresso, lungi dall’essere associato al momento della morte, è sempre stato considerato un forte simbolo di vita. Come in Cina dove simboleggiava longevità o in Giappone dove col suo legno durevole e profumato, venivano fabbricati gli scettri dei sacerdoti ed officiati riti di accensione dei fuochi sacri. Questo legame con l’aldilà, quest’elemento ultraterreno rimase anche nella cultura latina dove il cipresso fu collegato a Plutone, corrispondente latino dell’Ade greco; sebbene impiegato per scopi assai più pratici, quali la centuriazione dell’ager.

Cipressi maschi e cipressi femmine

In Val d’Orcia si usa distinguere “cipressi maschi” e “femmine” a seconda della chioma

Una curiosità interessante è che gli abitanti della Val d’Orcia sono soliti individuare “cipressi maschi” e “cipressi femmine” distinguendoli grazie alla conformazione della chioma: quegli esemplari con la chioma affusolata ed appuntita sarebbero i maschi mentre quelli il cui fogliame si divide in due punte corrisponderebbero agli “accipressi” o “cipressi femmine“.

Cappella di Vitaleta
Cappella di Vitaleta – credits Paolo Fefe’