Ti sei mai domandato quanti passaggi di mani esperte si celano dietro al profumato bicchiere di vino che stai sorseggiando?

 

Fino a qualche anno fa in un calice di Brunello, Nobile o Chianti avresti potuto trovare anche un sentore dei boschi di Moggiona in Casentino…

Forse fino a qualche anno fa in un calice di Brunello, di Nobile di Montepulciano o di Chianti avresti potuto trovare anche un lontano sentore di quei boschi del Casentino, alle cui pendici sorge il paese di Moggiona, a pochi passi dal monastero di Camaldoli. In ogni bicchiere avresti potuto assaporare le ore di lavoro di un artigiano del legno, con la sua bottega, i suoi strumenti ed una sapienza tramandata di generazione in generazione. Tutto questo perchè proprio a Moggiona aveva luogo la più importante produzione toscana di bigonce, ovvero quei tini che fino all’invenzione della plastica si era soliti usare per il trasporto delle uve dalla vigna alla cantina durante la vendemmia.

Le bigonce di Moggiona

La bigoncia è un recipiente formato da assi di legno tenute assieme da doghe di ferro che serviva per trasportare l’uva appena raccolta in cantina durante la vendemmia

La bigoncia era un recipiente di legno costituito da assi di faggio o di abete, tenuto assieme da doghe di ferro circolari ed alto una settantina di centimetri, capace di contenere circa 50 chili di uva (anche se nella versione fiorentina la bigoncia era più piccola e conteneva circa 35 chili). Ogni anno i bigonai casentinesi trasportavano e lavoravano la legna, la mettevano ad essiccare lungo la strada e producevano tonnellate di bigonce, tini, barili, catini, mastelli per la grande fiera di Arezzo, che si teneva intorno al 9 di settembre. Una volta esaurita la produzione si mettevano in viaggio per fare il giro dei clienti: visitavano fattorie, castelli, coloniche e aziende agricole: riparavano una vecchia bigoncia o ne fabbricavano una nuova, sostituivano una doga o aggiustavano un cerchio e così fino ad una nuova stagione di legname.

Ma Moggiona non era famosa solo per le bigonce: tini, barili, catini, mestelli, mobili, utensili e molto altro ancora distinguevano la manifattura casentinese dalle altre

La storia dei bigonai

In passato si poteva ancora curiosare in uno dei tanti laboratori del paese, riconoscibili per le cataste di tronchi scortecciati, travi e doghe sin sulla strada. Con il passare del tempo alcune vecchie botteghe si sono tramutate in fabbriche per la produzione di mobili e capolavori di artigianato ma la fama di Moggiona è rimasta legata a quella dei bigonai. L’avvento della plastica, più leggera e maneggevole, decretò tuttavia l’esaurirsi di un patrimonio che ancora negli anni ’50 si stimava in circa 26 botteghe in un paese a malapena di 600 abitanti, eppure i moggionesi non si diedero per vinti…

Oggi una bottega-museo e la memoria di chi fu bigonaio ricordano l’arte antica di produrre le bigonce, che cominciò a declinare con l’avvento della moderna e leggera plastica

Alcuni reinventarono la propria arte passando dalle bigonce, dai mastelli da mungitura, dai mescìni da concime a pregiati oggetti d’arredo per le case di città o robusti mobili per le ville di campagna oltre a proseguire nella produzione di recipienti ed utensili. Insomma proprio come Geppetto – anche lui “di padre toscano” – questi artigiani continuarono a scortecciare, intagliare, piegare, piallare, raspare e limare il legno delle foreste di Camaldoli, avvalendosi di strumenti più moderni uniti ad una sapienza antica.

Sapienza le cui tracce si possono scorgere ancora in Casentino, dove il legno fa parte della tradizione e nei volti rugosi dei vecchi abitanti di questa valle sembra ancora di scorgere l’intaglio fatto ad arte da un bigonaio di Moggiona.

Abitazioni nel paese di Moggiona
Abitazioni nel paese di Moggiona – ItalyzeMe CC BY-NC-ND 2.0